Fase 1: COSMOAGONIA
Fase 2: V.I.T.R.I.O.L. Solve
Fase 3: V.I.T.R.I.O.L. Coagula
Fase 4: NOZZE ALCHEMICHE
LOPPE D'ATHANOR
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FRAMMENTI POESIA - Loris Bagnara
All’inizio potevo anch’io, spensierato, far correre un soffio d’aria fra le dita della mano aperta e attraverso guardarvi il mondo: solo ora, provando a serrare il pugno, mi accorgo che una certa pressione insorge ad impedire il contatto fra palmo e dita.
È come afferrare un’invisibile eppur solida maniglia d’un materiale etereo di cui perfino i filosofi — non dico gli scienziati — nulla sanno.
Basta un attimo: un violento strattone e la realtà vola via come un sipario.
Un giorno per puro caso, rivolgendo lo sguardo in una direzione insolita, riesco a scorgere la quarta dimensione, così, semplicemente, come il piatto abitante di Flatlandia potrebbe scorgere la terza se soltanto volgesse il naso in su… Gli occhi catturati da quelle magiche profondità che si aprono nell'altrove, eppure così vicine da pensare di potermici immergere, resto immobile per ore attento a non uscire da quella singolare prospettiva. Poi, colto ormai da stanchezza e dallo stordimento che insorge di fronte a cose che superano di gran lunga la comprensione umana, devo infine cedere, sopraffatto, e chiudere gli occhi, e sedermi in poltrona. Mi addormento di schianto, felice, e sogno l'altrove.
Al risveglio voglio comunicare la mia conquista. Corro come un forsennato per le strade, eccitato più d’un pazzo; ma di fronte alla gente che fermo, per quanto io ritorca il collo e rotei gli occhi dentro le orbite — fino a produrre probabilmente orribili smorfie — non riesco più a riafferrare quella fantastica direzione. Arrossisco allora di vergogna, balbetto, finché la gente poi non si allontana, alcuni spaventati altri divertiti. Inoltre, perfino i miei ricordi ora non sono più nitidi dei sogni, si confondono con essi e, come di colpo appiattiti, non riesco più a ritrovarvi quella misteriosa profondità che mi aveva catturato.
Ritorno a casa, terribilmente abbattuto. « Eppure », ripeto a me stesso, ma ormai io stesso incredulo, « è bastato guardare… sì… guardare in su… ».
In piedi accanto alla finestra, il naso schiacciato contro il vetro che si appannava al respiro, ho osservato a lungo un uomo alto, magro, dall'andatura calma e sicura, l'impermeabile grigio e il cappello ad ampie tese, mentre si allontanava («Verso il punto di fuga», pensai) a larghi passi sotto la pioggia fine lungo una strada deserta che molto lontano andava a sfociare in una via trafficata, uomini e donne e cani al guinzaglio, bambini, accattoni, frastuono di macchine e di autocarri.
Dire che ho visto, come in un film, la parola FINE emergere in assolvenza dalle profondità di un cielo grigio e minaccioso, ma, forse, solo dipinto? Eppure, potessi spegnere il teleschermo, potessi staccare il volto dal vetro, è umido e il naso ormai duole, potessi almeno socchiudere le palpebre di tanto in tanto, ora che l'uomo è scomparso, ora che il traffico è fermo ai lati delle strade, ora che la gente se ne torna a casa perché la pioggia è cresciuta, e poi è tardi, è già scesa la sera, non c'è più nulla da fare e tutti sono stanchi.
Ora che tutto è finito e non c'è più nulla da vedere, e si avverte soltanto il crepitare delle gocce contro il vetro come pixels impazziti di un teleschermo ancora acceso a notte fonda, dopo la fine delle trasmissioni.
In uno spazio immobile dove ampi riferimenti ad entità metafisiche immacolate — benché si credesse in un’umanità redenta — trovavano posto fra raffiche di sabbia del deserto e bruchi che strisciavano all’ombra del trombettiere dei castelli infernali: non così facile, oserei dire, la vista del promontorio assolato.
Odiosa fanfara, non so chi temere più di me stesso! Danziamo pure, sì, danziamo fanfara odiosa, fra le sale dei castelli infernali, nell’attesa di un suono nuovo che venga a purificare le piaghe di un morbo falsamente dimenticato.
— Ma la vita? Che?
— E noi qua insieme, per sempre.
Monti d’inverno: d’orsi
dormienti, mantelli irsuti, scudi
rocciosi di sauri estinti.
— Altare al gelo svetta solit’aria e pura altura.
Ascendo fra i picchi, al cielo richiedo:
roca risponde la voce che l’eco
da rocce nasch’onde.
— M’onde, fr’onde, gioch’onde…
Rovina nel botro la
macchia di rovi ritorti e di bacche
che l'abile gracchia s'imbecca.
— Vecchia cornacchia ridacchia e si stacca.
Ah, gett’arsi dalla turpe rupe da cui
spelonca abisso
per acque pure e cupe!
— Ch'orrenti fredde, vorticose.
Da qui si vede la pianura oscura
e sterminata la specie umana.
Dietro le fronde mosse dal vento c’è una radura erbosa: laggiù, due uomini in casacche multicolori sono avvinti da uno strano abbraccio.
(Le maschere strappate, Arlecchino e Pulcinella combattono per Colombina, seduta in disparte, divertita.)
Non lontano, oltre il filare d’alberi, un’elegante carrozza d’altri tempi è in corsa o ferma sulla via; all'interno, le sagome di due individui danzano sulle tendine tirate ai finestrini.
(Sobbalza la carrozza su una buca ed ecco per un istante che si scopre: Cenerentola e il suo Principe, novelli sposi o amanti, ridono gaiamente dell’ingenuo spettacolo.)
Più avanti è un colle rotondo e verdeggiante e sulla cima un gazebo dimenticato, facile preda ai morsi potenti dell'edera e della ruggine.
(Rimpiange i festini di un tempo e le tenere coppie di amanti?)
C'è infine, sopra tutto, il vento a sospingere nubi contro la falce acuta della luna, il vento a scuotere i boschi che ondeggiano sul crinale, il vento che scioglie nell'aria lacrime, versi e sospiri.
(Da qualche parte Satiri danzano al suono di musiche inaudite e un buffo Cupido diverte Ninfe con il racconto di trame ordite e futuri intrighi.)
Stupefatto da tanta dolcezza, ti attendo.
Silvie Vartàn, Silvie Vartàn lo seppe!
Mi pare lo dicesse pure Beppe.
Vivìre Marckxx, a belgi pente posso!
E' Merckx che intendi, o è il pianeta rosso?
Nicrasse truglia, frillerei stovelle!
A volte se ne senton delle belle!